Avv. Marco Baudino
Ha sempre costituito un principio normativo pacifico, e sostanzialmente da tutti accettato, il fatto che nell’ambito delle piccole aziende, nel caso di licenziamento, la tutela della posizione del lavoratore dipendente possa trovare una tutela attenuata rispetto a quella di cui il lavoratore gode nelle aziende di più ampie dimensioni.
Tale differenziazione di tutele trova giustificazione in un duplice ordine di ragioni.
In primo luogo, nelle aziende più grandi i rapporti di lavoro sono ovviamente più spersonalizzati: tanto che, spesso, gli amministratori non conoscono neppure personalmente la maggior parte dei lavoratori che lavorano nella loro impresa. Invece, nelle aziende di più piccole dimensioni, lo svolgimento dell’attività lavorativa avviene con una più stretta e continua collaborazione tra il lavoratore, i suoi colleghi e il datore di lavoro, cosicché una eventuale rottura del rapporto fiduciario fra tali soggetti è certo più difficilmente rimediabile.
In secondo luogo, le aziende di più piccole dimensioni dispongono, solitamente, di minori risorse economiche e finanziarie; circostanza della quale necessariamente si deve anche tenere conto nella determinazione dell’eventuale indennizzo spettante al lavoratore colpito da un provvedimento di licenziamento considerato illegittimo a norma di legge, ai fini di un giusto contemperamento tra gli interessi del lavoratore e quelli dell’impresa. Ciò, si noti, avviene anche a tutela delle posizioni di quei lavoratori che nell’impresa continuano invece a lavorare e che potrebbero essere anche loro indirettamente danneggiati, qualora l’entità dell’indennizzo riconosciuto al lavoratore illegittimamente licenziato fosse tale da porre in difficoltà finanziaria il datore di lavoro chiamato a farvi fronte.
Queste sono le ragioni per le quali nelle piccole imprese, tali ritenendosi quelle in cui operano meno di 16 dipendenti nell’ambito dell’unità produttiva in cui lavora il lavoratore ingiustamente licenziato e meno di sessanta dipendenti nell’intero territorio nazionale, fatta eccezione che nei casi più gravi di nullità del licenziamento (in quanto non comminato per iscritto, contrario a norme imperative di legge o discriminatorio) al lavoratore non compete il diritto alla reintegra nel posto di lavoro. Inoltre, l’ammontare dell’indennizzo comunque spettantegli è (o, meglio, per quanto si dirà infra, era) limitato ad un importo compreso tra le 2.5 e le 6 mensilità di retribuzione globale di fatto. Misura quest’ultima che il Giudice può incrementare fino a 10 mensilità (per i lavoratori con più di dieci anni di anzianità) e fino a 14 mensilità (per i lavoratori con più di vent’anni di anzianità) solo se sono dipendenti da datori di lavoro che occupano più di quindici prestatori di lavoro in ambito nazionale.
Si tratta di disposizioni queste, vigenti, con poche modifiche e variazioni, ormai da quasi sessant’anni, essendo dettate dall’art. 8 della Legge 15/7/1966 n. 604 (Norme sui licenziamenti individuali) e dall’art. 18 della L. 20/5/1970 n. 300 (Statuto dei lavoratori).
Tale normativa ha infatti resistito nel corso degli anni, nonostante le numerose riforme che nello stesso periodo sono state apportate invece dal Legislatore alla disciplina dei licenziamenti individuali applicati a lavoratori che operano nell’ambito delle aziende di maggiori dimensioni (e cioè, come detto, con più di quindici dipendenti nell’unità produttiva e/o più di sessanta dipendenti in ambito nazionale).
Si tratta in particolare delle disposizioni di cui alle Leggi 11/5/1990 n. 108, 28/6/2012 n. 92 e del D. Lgs 4/3/2015 n. 23: riforme con le quali sono state di volta in volta (e a seconda dei tempi e degli umori e orientamenti politici delle maggioranze parlamentari) vuoi inasprite e vuoi invece attenuate le conseguenze sanzionatorie che derivano al datore di lavoro nel caso di illegittimità del licenziamento comminato nell’ambito delle aziende di più ampie dimensioni.
Si noti in particolare che anche con l’ultimo di tali provvedimenti legislativi, il D. Lgs n. 23/2015, (e cioè il c.d. Jobs Act), che trova applicazione solo nei confronti dei lavoratori assunti nelle imprese dopo la data di entrata in vigore del provvedimento stesso (7/3/2015), il Legislatore, nel ridisegnare completamente la disciplina delle conseguenze dei licenziamenti illegittimi, si era però premurato di precisare all’art. 9 (rubricato piccole imprese e organizzazioni di tendenza) che:
“Ove il datore di lavoro non raggiunga i requisiti dimensionali di cui all’art. 18, ottavo e nono comma della Legge n. 300 del 1970 [i.e. 16 dipendenti nell’unità produttiva e 60 sul territorio nazionale], non si applica l’art. 3, comma 2 [in tema di obbligo di reintegra] e l’ammontare delle indennità e dell’importo previsti dall’articolo 3, comma 1, dall’art. 4 comma 1 e dall’articolo 6, comma 1, è dimezzato e non può in ogni caso superare il limite di sei mensilità”.
In pratica, è stata uniformata in tale modo, per i lavoratori dipendenti delle piccole imprese, la disciplina delle conseguenze del licenziamento e l’entità dell’indennizzo dovuto dal datore di lavoro al lavoratore illegittimamente licenziato, a quanto era ed è previsto e trova applicazione, per i dipendenti assunti prima della data del 7/3/2015, dall’art. 8 della Legge n. 604/1966.
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Si noti che questo quadro normativo aveva superato anche lo scoglio referendario del Giugno 2025.
Invero il secondo quesito referendario, che il Comitato promotore dei referendum dichiarava come finalizzato a fornire “più tutele per le lavoratrici e i lavoratori delle piccole imprese” proponeva proprio l’abrogazione dell’art. 8 della Legge n. 604/1966, nella parte in cui pone un limite massimo di sei mensilità (aumentabile come sopra specificato, in taluni casi, fino a 10 e 14 mensilità di retribuzione) all’entità dell’indennizzo spettante al lavoratore illegittimamente licenziato.
Come sappiamo peraltro, anche con riferimento a tale quesito, non sono stati raggiunti i quorum partecipativi, e pertanto la proposta referendaria è stata respinta.
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Sul tema è però ora intervenuta, con la recentissima sentenza n. 118 del 21/7/2025 la Corte Costituzionale.
Si tratta in effetti dell’ennesimo intervento della Consulta destinato ad incidere profondamente sulla normativa dettata in tema di licenziamenti individuali dal Jobs Act.
Delle precedenti decisioni della Corte ci eravamo già ampiamente occupati nella nostra precedente nota del 30 agosto 2024 alla cui lettura rimandiamo chi ne fosse interessato.
Orbene, con la sentenza in commento la Corte ha dichiarato:
l’illegittimità costituzionale dell’art. 9, comma 1 del decreto legislativo 4 marzo 2015 n. 23 [sopra citato] limitatamente alle parole “e non può in ogni caso superare il limite di sei mensilità”.
La motivazione addotta dalla Corte a sostegno della propria decisione è in estrema sintesi la seguente:
“Quel che confligge con i principi costituzionali, dando luogo a una tutela monetaria incompatibile con la necessaria personalizzazione del danno subito dal lavoratore (sentenza n. 194 del 2018), è piuttosto l’imposizione di un tetto, stabilito in sei mensilità di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto e insuperabile anche in presenza di licenziamenti viziati dalle più gravi forme di illegittimità, che comprime eccessivamente l’ammontare dell’indennità. Tale significativo contenimento delle conseguenze indennitarie a carico del datore di lavoro (..) delinea un’indennità stretta in un divario così esiguo (…) da connotarla al pari di una liquidazione legale forfetizzata e standardizzata, ma una siffatta liquidazione è stata già ritenuta da questa Corte inidonea a rispecchiare la specificità del caso concreto e quindi a costituire un ristoro del pregiudizio sofferto dal lavoratore, adeguato a garantirne la dignità, nel rispetto del principio di eguaglianza, Tale ristoro può essere delimitato, ma non sacrificato neppure in nome dell’esigenza di prevedibilità e contenimento dei costi, al cospetto di un licenziamento illegittimo che l’ordinamento, anche nel peculiare contesto delle piccole realtà organizzative, qualifica comunque come illecito (sentenza n. 150 del 2020)”.
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Non nascondiamo che la decisione della Corte Costituzionale e la motivazione da essa addotta e sopra da noi richiamata, destano, a noi pratici del diritto, qualche perplessità.
Infatti, innanzitutto, come abbiamo sopra riferito, il tetto delle sei mensilità di retribuzione globale per l’indennizzo spettante al lavoratore illegittimamente licenziato, era già previsto dalla Legge n. 604 del 1966 e quindi era ed è vigente nel nostro ordinamento da ormai quasi sessant’anni.
Inoltre, la misura risarcitoria / indennitaria, prevista dalle due norme, la Legge n. 604 del 1966 e il D.Lgs n. 23 del 2015 trova applicazione solo nei casi di licenziamenti illegittimi (e cioè quando sia mancante la giusta causa o il giustificato motivo del licenziamento ovvero il licenziamento stesso sia carente sotto il profilo formale); non nel caso di licenziamenti illeciti. Infatti, nel caso di illiceità del licenziamento (perché discriminatorio, applicato in violazione di norme imperative di legge – ad esempio licenziamento della donna in gravidanza – ovvero intimato non per iscritto) il licenziamento risulta irrimediabilmente nullo e dunque il lavoratore, anche se addetto ad una piccola impresa, ha comunque diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro ed al pagamento delle retribuzioni maturate fino alla data della reintegra.
Infine, occorre tenere conto che l’indennizzo previsto dall’art. 9, comma 1 del decreto legislativo 4 marzo 2015 n. 23 (così come quello previsto dall’art. 8 della Legge n. 604 del 1966) si aggiunge al godimento della Naspi, cui il lavoratore illegittimamente licenziato può accedere per una durata massima di due anni.
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Ad ogni buon conto, ed in assenza di auspicabili, solleciti interventi del legislatore sull’argomento (ovvero di, altrettanto auspicabili, pronunce interpretative della Suprema Corte di Cassazione) , la situazione (francamente un po' paradossale) che viene a delinearsi a seguito della decisione della Corte Costituzionale in commento è la seguente.
Nel caso di rapporti di lavoro sorti successivamente al 7 marzo 2015, il lavoratore addetto ad una piccola impresa che venga illegittimamente licenziato avrà diritto ad una indennità risarcitoria dimezzata rispetto a quella spettante agli addetti alle grandi imprese, ma comunque compresa fra le tre e le diciotto mensilità di retribuzione globale di fatto, nel caso di licenziamento carente di giusta causa o giustificato motivo, e fra una e sei mensilità (nel caso di meri vizi formali del licenziamento).
Nel caso invece di rapporti di lavoro sorti anteriormente al 7 marzo 2015, resta fermo ed applicabile il disposto dall’art. 8 della Legge 15/7/1966 n. 604 secondo cui l’indennità del licenziamento andrà invece sempre determinata nell’ambito della forbice compresa tra le 2,5 e le 6 mensilità di retribuzione globale di fatto; salva sola la possibilità di estendere l’importo fino a dieci o quattordici mensilità, nei casi di anzianità di servizio superiore ai dieci ed ai vent’anni, da parte di lavoratore addetto ad un’azienda con più di quindici dipendenti.
In sostanza, nell’ambito delle piccole imprese, i lavoratori con minor anzianità sono più tutelati di quelli con anzianità maggiore.
Ci domandiamo quale sia la compatibilità di tale differenza di disciplina normativa, con il disposto dell’art. 3 della nostra Costituzione.